Tutti noi abbiamo un sogno nel cassetto: la musica, la scrittura, la danza, diventare astronauti, medici, avvocati; diventare madre, padre, adottare un animale, fare un viaggio “on the road”, incontrare il proprio idolo; insomma, se dovessi fare una lista qui, di sicuro, non ci starebbe. Io, ad esempio, ne ho molti, tante idee, tanti progetti che in futuro vorrei realizzare; così come, e sono sicura di non sbagliarmi, tu che stai leggendo queste parole.
È anche vero però che i sogni da soli non bastano; ne sentiamo spesso parlare, ma nessuno mai che ha il coraggio di dimostrare concretamente quanta fatica possa costare realizzare ciò che vorremmo davvero essere. Per realizzare un sogno quindi, non è necessario solo averne uno, sentirlo proprio, confondersi con esso: serve dedizione, impegno, sacrificio. Rinunce. Coraggio nell’andare anche oltre se stessi, spingersi oltre quel confine che ci fa sentire protetti, poco esposti al pericolo.
La storia che leggerai in questo articolo parla di Laura, che ha fatto della danza non solo un sogno o una passione, ma il suo scopo di vita. La danza, in una storia che ci porta fino in India, e che mette radici in un salto nel vuoto il quale le ha permesso di capire quanto se stessa fosse il miglior paracadute di questo lancio.
LE DIFFICOLTÀ NEL SENTIRSI ED ESSERE CONSIDERATI DIVERSI
«Sono sempre stata una bambina vivace e sognatrice. Quando le altre bambine esponevano le loro idee su cosa avrebbero fatto da grandi…io non ne avevo idea o rispondevo “la ballerina” perché a differenza degli altri non mi è mai piaciuto tenere troppo i piedi per terra, anzi, mi piaceva l’idea di essere diversa. E sono diversa».
«Ovviamente gli anni della scuola sono stati problematici, perché quando sei diversa non piaci, non sei popolare, non sei la prescelta tra le amiche. Di amiche ne ho sempre avute pochissime. Ho un amico maschio, il mio migliore amico, di cui vado orgogliosa. Mi ha sempre accompagnata in ogni situazione, standomi accanto e supportandomi anche durante quegli anni durissimi nel periodo delle scuole. Siamo fratelli nell’anima, lo dico sempre».
“Diverso” finisce sempre per diventare sinonimo di “strano”, “debole”, “inferiore”, e lo abbiamo imparato ormai raccontando e leggendo anche altre storie presenti su questo blog. Questo tema ri-appare sempre, come una costante, a ricordarci quanto spesso pecchiamo di poca empatia; di quanto spesso non siamo disposti a vestire i panni di chi abbiamo di fronte. Una persona come noi, con la sua storia, i suoi vissuti, il suo desiderare, il suo sperare.
Noi stessi siamo “diversi” da coloro i quali consideriamo tali; dunque, mi chiedo: chi stabilisce a questo punto il criterio di normalità da considerare? Che cosa vuol dire, davvero, “essere diversi”?

Non sono gli altri a definire chi o cosa siamo
«Crescendo ho incontrato Mattia, non ci siamo cercati, ci siamo trovati. La mia anima gemella, la persona con cui condivido tutto. Abbiamo festeggiato i nostri 19 anni di fidanzamento proprio a ottobre. E ovviamente anche qui le domande: “quando vi sposate? Non sarebbe ora?” Be’, anche in questo voglio essere “diversa”. Noi stiamo bene e ci amiamo anche se non c’è un contratto a definirlo, una firma, una cerimonia e dei testimoni. Se avverrà che ci sposeremo, sarà a modo nostro e senza nemmeno fare troppa pubblicità».
Spesso sottovalutiamo l’importanza di avere al nostro fianco degli alleati: io credo invece sia fondamentale. Certo, trovare l’anima gemella, come si suol dire, non è facile; non è infatti a quello che si deve per forza aspirare. Avere accanto alleati significa tenere lontane da noi quelle persone che non ci permettono di farci sentire a nostro agio; avere il coraggio di allontanare, a costo di assaporare la solitudine, coloro i quali, anche con le sole parole, cercano di mettere limiti all’essere noi stessi, al nostro volerci realizzare. Gli amici, quelli di una vita, che non hanno mai una parola disinteressata di supporto o conforto nei nostri confronti. Avere accanto degli alleati a volte può significare anche avere accanto solamente se stessi; e non è un male nel caso in cui fossi solamente tu, il tuo unico vero sostenitore.
«Sono diventata intollerante alle regole da quando hanno fatto di tutto per farmi sentire sbagliata solo perché non mi adattavo a “essere come tutti gli altri”. Definita anche poco normale, sfigata, ritardata, disadattata. Ce n’è voluto del tempo per farmi capire anche in famiglia. Tuttora i rapporti con certi famigliari non sono certo idilliaci».
«Mi sono accorta che quando dici ciò che pensi, quando mostri ciò che sei…non piaci poi molto. Finchè stai bella omologata e accontenti le aspettative DEGLI ALTRI allora tutto a posto. Sempre questi altri a definirci la vita, a definire chi siamo. E basta!».
IL PRIMO INCONTRO CON LA DANZA
«Ho iniziato a danzare dalle elementari, danza classica, quanto mi piaceva quel tutù color del mare, quanto mi piaceva partecipare alle lezioni della maestra Franca. Peccato che dopo poco tempo lei non venne più e nessun’altra venne in sostituzione. Così smisero pure le lezioni di danza classica. Ma non certo la mia voglia di ballare. Organizzavo veri e propri teatrini in cortile con mia cugina, ci truccavamo e mettevamo nello stereo la cassetta delle Spice Girls (eh sì, sono del 1988 quindi era quella l’epoca) e ballavamo come matte».
«All’età dell’adolescenza invece, era il periodo di Shakira e quindi mi avvicinai a imparare la danza latino americana…guardando i suoi video. Si perché non era ancora in voga iscriversi a corsi di danza e comunque nel mio paesino sperduto tra le valli padane era quasi impossibile raggiungere una qualsivoglia città. E poi i genitori non me l’avrebbero permesso. La danza non è mai percepita come qualcosa di “buono” “pulito” “giusto”. Chissà perché la si associa spesso a donne scostumate, poca morale e puerilità».
«Me ne accorsi quando, qualche anno dopo, accettai di partecipare a dei corsi di balli di gruppo organizzati da una mia cugina di 70 anni che si era studiata ogni stile possibile di ballo. Tra cui anche le danze latinoamericane. C’erano delle signore che non venivano più a danza perché “il marito non voleva” oppure il marito veniva a vedere durante la lezione, di cosa si trattasse il corso. Sospettoso di chissà quale immoralità. Eravamo una classe di cui la più giovane ero io e tutte le altre erano tra i 40 e 70 anni con la sola voglia di imparare, divertirsi e ridere di gusto. Tutto qua. Eppure è dura a morire l’idea che la ballerina sia…una poco di buono. E non solo nel modo di vedere maschile, anche certe donne lo pensano».

Il dolore della perdita e l’ancora
«Nel 2010 accadde un fatto che segnò irrimediabilmente la mia vita. Tuttora mi viene da piangere se ci penso troppo. Muore mia nonna Edvige. La persona con cui mi sono sempre sentita “a casa”. La persona che mi ha cresciuta, come seconda mamma. La persona che mi ha curata quando avevo la febbre, che mi ha sorriso e chiamato “tesoro”. La nonna che auguro a tutti di avere. Improvvisamente mi cade il mondo addosso. La nonna è morta. Mi vengono le lacrime agli occhi già scrivendone. Risento il pugno nello stomaco che ho avvertito quando mi hanno dato la notizia. Non era possibile. La nonna “non può morire”. Sono trascorsi periodi neri, bui, di depressione. Di giornate intere passate sul divano in pigiama. Di ricerca di senso, di ricerca di quiete».
«Mi sentivo debole e proprio in quel periodo mi venne come in soccorso la scoperta del flamenco, delle canzoni spagnole ma anche il Fado portoghese. Passando molto tempo sul divano in casa, ho avuto modo di fare molte ricerche su internet, non so come ho fatto a trovare queste forme d’arte, ma ho cominciato a innamorarmi letteralmente del flamenco di Lola Flores, le canzoni di Rocio Jurado e il Fado di Amalia Rodrigues (tanto che ho visitato la sua Casa Amarela a Lisbona). Mi sono letteralmente buttata alla scoperta di queste personalità forti, artistiche e ricche di ispirazione per me. Al punto che tutto ciò mi ha aiutata durante quel periodo orribile».
Leggendo queste parole di Laura mi è tornato subito in mente uno dei periodi più brutti della mia vita, quando ho subito la sua stessa perdita. Una domenica mattina mi trovavo in ospedale, da sola, in aiuto a mia nonna che era ricoverata per un brutto male. Il caso ha voluto che proprio quella mattina, lei, con solo me di fianco al suo letto, regalasse al mondo il suo ultimo respiro. Uso la parola “regalare” non a caso, perché il suo respiro era davvero un regalo.
Era una donna silenziosa, chiusa nell’intimo dei suoi pensieri e dei suoi ricordi, alla quale mancava molto il marito, scomparso anche lui, mio nonno, da un anno a quella parte. Persone di altri tempi, buone, cresciute con il sudore della terra, sotto al sole del sud, con la brezza marina che alle tre del pomeriggio ti accarezza la pelle quando cerchi riparo sotto agli alberi, come erano poi soliti fare, mio nonno e mia nonna, sempre per mano, l’uno accanto all’altro.
Conosco questo dolore, e so che in molti si riconosceranno in queste parole e in questi sentimenti; forse per un lutto più antico, o uno più giovane. A te che stai leggendo, se tutto ciò ti suona familiare, vorrei dire soltanto una cosa: i ricordi restano, il dolore si trasforma, il buio ritorna ad essere luce. Anche laddove la sofferenza penetra in ogni parte del tuo corpo e della tua mente, dopo che avrai lasciato che questa ti attraversi, ricorda di cercare la tua ancora. Una passione, un viaggio, un sogno, te stesso/a; qualsiasi cosa. Coloro che non ci sono più, lo avrebbero desiderato per te, con tutta l’anima.
«Ma non è finita qui. Al contempo scopro il mondo di Bollywood, la danza indiana, quante danze indiane esistono e comincio a studiare. Sempre da casa mi faccio una enorme cultura, inizio a guardare i video e creare delle coreografie. Ballo da sola, non mi viene nemmeno in mente di far fruttare questa passione. Siamo ancora nel periodo depressivo, nemmeno avevo un lavoro. Nemmeno lo cercavo. Ecco anche questa “parentesi lavoro” non è certo degna di essere catalogata nelle “storie di successo”. Per carità anche lì drammi assurdi».
UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA VERSO IL PORTOGALLO
«Nel 2014 però, dopo tanto tempo a soffrire, dopo anni, decido di dire basta. Basta alle amicizie tossiche, basta al naturopata/psicologo, basta alle lamentele, a leggere continuamente libri di “guarigione e crescita personale”. Adesso è giunto il momento di agire».
«Decido di contattare una conoscenza che abita in Algarve, Portogallo. Lei nemmeno mi conosceva in realtà, non di persona. Io avevo semplicemente letto la sua storia su di un magazine online che parla di italiani all’estero. Ero talmente caparbia che le scrissi per sapere se potevo andare da lei a fare un’esperienza di lavoro nel suo agriturismo e agrigelateria, ma intanto avevo già in mano il biglietto aereo di SOLA ANDATA».
«Potete immaginare la sorpresa di questa persona; Lorella. Addirittura pensava che scherzassi quando le dissi che arrivavo in Portogallo. I miei genitori che vedevano questa figlia un po’ pazza rinchiusa in casa da anni, mai andata manco a Brescia da sola e ora prende il volo e se ne va in Portogallo e non dice quando torna. E tutto questo DA SOLA!!!!»
«Inutile raccontarvi i giudizi a cui sono stata sottoposta e i consigli che mi avrebbero voluta spedire dallo psicologo. Io presi questo aereo. Mi accompagnò Mattia in aeroporto, sapeva che era quello che volevo, sapeva che era il momento di farlo. Ora o mai più. Quel periodo in Portogallo è stato come una terapia. Lorella mi aiutò tantissimo a “guarire” da certi fantasmi interiori, lei stessa mi raccontò di essere stata per anni dallo psicologo. Lei e Loris, suo marito, hanno saputo farmi sentire accettata, non giudicata. Li ringrazierò a vita».
L’importanza di costruirsi un paracadute
Quello di Laura potremmo definirlo già da questa prima esperienza in portogallo come un vero e proprio salto nel vuoto. Capisco che qualcuno di fronte a ciò possa sentirsi incerto, magari ti stai chiedendo se qualcosa del genere sia davvero possibile o se non lo sia solamente per pochi privilegiati.
La verità è una, e sta nel mezzo: il paracadute. Io stessa ho fatto un enorme salto nel vuoto due anni fa ormai, trasferendomi in una città nuova, dal nord italia direttamente qui, al sud, in Campania, per stare vicina al mio compagno, colui con il quale ora sto costruendo una famiglia. Lasciando di punto in bianco un lavoro, una casa sicura, affetti, luoghi.
Per rendere possibile tutto questo però, è importante che tu ricordi, SEMPRE, di costruire prima di tutto un piccolo paracadute che ti permetta, nel caso non dovesse andare come vorresti, di poter fare anche un passo indietro. Che sia una casa, famiglia, compagno/a, dove tornare; qualche soldo da parte per le emergenze; un secondo lavoro, almeno inizialmente, nel caso ad esempio, mi viene in mente, si voglia cominciare una carriera da freelance (professione sempre più diffusa oggi). Avere un paracadute rende le cose possibili, e non solo per “pochi eletti”. Ogni passo in avanti va fatto sì con i sentimenti, ma anche con i ragionamenti.
…E POI FINALMENTE L’INDIA!
«Dopo tre settimane venne Mattia a “prendermi” a Lisbona, su consiglio anche di papà che pensava volessi fare la pazzia di non tornare più a casa; sempre in quell’anno, verso fine anno per la precisione, io e Mattia decidemmo di farci un viaggio in India. Volevo iscrivermi a una scuola di Massaggio Ayurveda. Primo viaggio fuori dall’Europa, Mattia si era appena licenziato da un lavoro che non lo rendeva felice, io che avevo tutti i pori della pelle che chiedevano “voglia di vivere”: così partimmo».

«Visitammo l’India del Sud, il Kerala, dove c’era anche la mia scuola. Corso di un mese molto interessante che dava le basi del massaggio, conoscenze di medicina indiana e sedute pratiche di massaggi vari. Esplorammo il Kerala con le sue dolci acque, la vegetazione lussureggiante, quel vivere di niente ma sentire di avere tutto per essere felici finalmente. Fu il periodo che scrissi anche molte poesie sull’India. Mi dava indicibili emozioni essere là. L’India o la ami o la odi. È verissimo questo detto».
«Ma in India ci siamo tornati una seconda volta, ed è lì che inizia il mio percorso decisionale riguardo la danza non più come sola passione silenziosa, ma la volontà ferrea di farla sbocciare».
L’India e la Danza
«Siamo nel 2019, viaggio verso il Rajasthan, culla della tribù Kalbelia, la tribù del deserto famosa per essere incantatori di serpenti e le cui donne sono abili in danze acrobatiche e molto suggestive. Si cuciono e decorano da sé gli abiti. Si esibiscono perlopiù in danze di strada, magari improvvisate, perché non c’è una vera e propria scuola per insegnare queste danze. Se vuoi imparare…vai dai gitani del deserto direttamente e ti insegnano le loro donne».
«Io ne contattai una che aveva anche collaborato con ballerine europee, ma purtroppo come sapete in India, coprire le distanze kilometriche incredibilmente lunghe è un bel dilemma. Allora, nella città di Pushkar, vidi che c’era pieno di scuole di musica e di danza, anche senza per forza recarmi presso la tribù Kalbelia. Ero un po’ rammaricata ma comunque contenta. Pushkar è conosciuta per le tantissime scuole che sorgono ai lati della strada. Più o meno quotate. Ma il bello è che a farvi lezione sono persone semplici, non veri e propri maestri, ma gente che magari ha imparato grazie al tramandarsi di queste arti. Tra donne in famiglia. E credo che questo sia il vero sapore».
«Insomma iniziai un breve corso presso una piccola scuola, una sola stanza con dentro gli strumenti, un musicista e l’insegnante di danza, una ragazza più giovane di me. Mi insegnò un’intera coreografia di danza tipica del Rajasthan, spiegandomi il significato delle parole, facendomi ripetere alla perfezione ogni movimento e creando dei video ricordo così che potessi sempre avere con me quell’esperienza. Rimasi incantata dalla fluidità dei movimenti durante la coreografia. Mi sembrava di averlo sempre saputo fare».
«In quel periodo cominciai anche a editare video su Youtube, i miei primi video di danza. Ero più che mai convinta che tanta bellezza, tanta arte, andasse condivisa, così magari da ispirare altre persone come me, che nonostante l’assenza di una vera scuola, si possa imparare autonomamente con altri mezzi. Spesso le cose più naturali, più umili, meno conosciute, sono quelle che portano a maggiori e duraturi risultati. Così fu».
Riuscire in qualcosa non è impossibile
«Negli anni a venire cominciai a fare video anche in casa, nella mia stanza, creando da sola le coreografie, studiando i testi in lingua hindu, imparando a editare video, mettendo a frutto tutta la mia creatività. Volevo dimostrare che non è impossibile riuscire in qualcosa nella vita. Che anche se piccolo, un sogno è degno di essere realizzato e ciascuno ha il suo e va rispettato. Che si deve partire dal basso e non avere troppe illusioni, ma metterci tutto l’impegno necessario senza risparmiarsi».
E sono queste le parole che vorrei tu ri-leggessi: “si deve partire dal basso e non avere troppe illusioni, ma metterci tutto l’impegno necessario senza risparmiarsi”. Non posso che essere felice del fatto che sia stata Laura la prima a scriverle attraverso la sua voce, le sue mani. Non c’è nulla di più vero: avere dei sogni, riuscire in qualcosa, non è impossibile. Come dicevo all’inizio, come ci ha dimostrato questa donna, c’è bisogno di dedizione, impegno, sacrificio; accontentarsi a volte anche di non avere i mezzi e costruirseli, da autodidatta. Impegnarsi e non indietreggiare anche laddove il mondo sembra deriderci: perseverare.
E se per caso questo non dovesse bastare, ricorda: fallire e averci provato, è sicuramente meglio del non aver nemmeno tentato.
«Tutto questo mi ha portata a fare spettacoli davanti alle persone, partecipare a concorsi, dove inizialmente tremavo dall’emozione, temevo si notasse. Non avevo ancora abbastanza coraggio, pensando di non essere abbastanza brava. Poi col tempo mi sono perfezionata ma è un continuo imparare. Non si finisce mai. Perché non c’è mai un traguardo, una parola fine, un risultato così ottimale da pensare che non si debba continuare a comprendere e conoscere cose nuove. Nella danza, così come in altre discipline, è un continuo crescere e migliorare. Imparare e non fermarsi mai sono le parole d’ordine».
«E qui arriva il discorso “lavoro”. È vero che non ho mai avuto fortuna, ma nello stesso tempo, viaggiando, ho anche capito la potenzialità del lavoro nel turismo e così ho cominciato, insieme a Mattia, a fare varie esperienze all’estero».
«La più degna di nota è stata in Nuova Zelanda, tramite il working holiday visa. Se hai meno di 31 anni puoi fare richiesta. Dura un anno e ti dà la possibilità di lavorare ma al contempo di poter visitare questo paese meraviglioso. Poi abbiamo lavorato in Grecia, in Francia, di nuovo in Portogallo da Lorella e in Umbria. È stato in Umbria dove ho potuto cominciare davvero a esporre la mia danza ai turisti, alle persone che alloggiavano nella struttura dove lavoravo, anche grazie a un titolare ben disposto verso questa forma d’arte. Organizzavo serate dove proponevo spettacoli di danza indiana e invitavo le persone a partecipare. Era un momento di condivisione e intrattenimento che univa risate e tanta libertà di espressione».

LA BELLEZZA DELLA CONDIVISIONE
«Il bello della danza è anche e soprattutto l’improvvisazione. Spesso le coreografie le improvviso (questo è un segreto che voglio però che si sappia) mi piace la sensazione che sia la musica a suggerirmi che movimenti fare, le emozioni da trasmettere. Una volta che sai il testo, nulla ti ferma. E vedere le persone che ti ringraziano, ti abbracciano, senti quella connessione che solo l’arte sa donare. Una persona che visitò l’India e vide la mia danza si emozionò. Le vennero in mente i momenti di vita trascorsa in India, ci abbracciammo e sentivamo di poter condividere questo Mal d’India che solo chi ci è stato per parecchio tempo può capire».
«Ritengo che la più alta espressione della danza sia stata anche quando, complice la mia collega insegnante di yoga, decidemmo di organizzare una danza bendando le partecipanti. Nessuna doveva sentirsi giudicata o guardata. Dovevano esprimere le sensazioni del momento, che la musica suggeriva loro. Ognuna doveva muovere il corpo senza vergogna, senza sentire gli sguardi degli altri. Appunto bendate. Così non c’era il problema di “avere vergogna”. I movimenti erano liberatori. C’era chi solo accennava un leggero movimento, chi invece muoveva le mani come per togliersi un peso, chi vedevi si rilassava profondamente e chi…si è messa a piangere perché diceva che era da tempo che non riusciva più a lasciarsi andare. Credo siano anche queste delle soddisfazioni. Quando vedi che ciò che fai porta del bene agli altri».
“Tu sei il senso”
Ci tengo a concludere il racconto di questa incredibile storia di vita, con le ultime parole scritte da Laura per questo articolo:
«La verità è che i nostri sogni, ci sono donati dal Cielo perché ne facciamo qualcosa di buono per noi e per gli altri. Non vanno tenuti per sé. Ricordate la parabola dei talenti? In tutto questo ammetto con tanta onestà che la mia Fede è stata il fulcro di tutto. Della mia guarigione, ancora in atto, dei miei sogni, progetti, idee. Del mio andare in questo mondo. Quando sembra che nulla abbia senso, guardati dentro. Tu sei qui per un motivo. Tu SEI il senso».
Al di là del mio credo, del suo credo o del tuo; della fede, se ne abbiamo o meno; lei ci ricorda qualcosa di giusto, qualcosa di imprescindibile: siamo noi, a doverci guardare dentro, a doverci tendere una mano prima che lo facciano gli altri, ad aiutarci quando la necessità supera la presenza altrui (ricorda, non aspettare mai che sia qualcun altro ad agire per te). Siamo noi, il senso di tutto il nostro essere qui, nell’ora, nell’oggi. Il senso del nostro progredire, lo strumento che decide la direzione verso cui andremo.
Non sempre e non per forza “esistere” significa “riuscire”, la vita è anche dolore, ma questa deve essere soltanto una consapevolezza in più mentre stai “provando a riuscire”, non un limite.